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La storia della piccola Sara
Dicono che per i bambini c’è un Dio speciale. Il mio era in vacanza. Sfoglio i vecchi album di foto, ce li ho tutti davanti: c’è l’album rosso, il più consumato, poi c’è il più bello rilegato in pelle, e l’album a fiori, immagini sparse sul letto, lontane nei ricordi, ma non troppo. Quella che cerco è la piccola Sara, lei urla così forte dentro di me che non posso fermarla, ma tra quella folla di volti sorridenti non la trovo.
Solo ora che ripenso alla mia infanzia provo tanta rabbia per le emozioni perdute, per i sogni mancati, per le favole mai raccontate. Nessun album di foto può raccogliere quanto non è mai esistito. Nessun album può raccontare un’infanzia negata.
Sono nata in una famiglia di Testimoni di Geova dove essere bambino significa essere un piccolo adulto pieno di pensieri seri. Costretto a temere un futuro fatto di distruzione, figlio di un dio carceriere, ogni bambino cerca di scacciare la punizione divina sempre pronta a colpirlo. Proprio come faceva la piccola Sara.
Geova non amava le feste e pretendeva che i suoi servitori facessero altrettanto, naturalmente imponendolo anche ai loro figli. Le mie amiche parlano ridendo degli episodi dell’asilo o del loro terzo compleanno e mi mostrano la foto dove sono così piccole e felici davanti a una torta enorme con tre candeline accese. Per me c’è il vuoto. La mia prima torta di compleanno io l’ho avuta a diciannove anni, con tanto di canzoncina e desiderio da esprimere, certo, quello che avevo sempre sognato.
Ma l’ho avuta adesso, adesso che sono grande e che mi rendo conto di non aver mai provato la strana eccitazione tante volte letta negli occhi dei miei compagni di scuola protagonisti di una festa tutta per loro. Perché? Ve lo spiega la piccola Sara che a suo tempo aveva imparato bene la storia. C’era una volta una bella ragazza, era la figlia della moglie del re Erode. Si chiamava Salomè, era viziata e viziosa, ma il re stravedeva per le sue grazie. Per il suo genetliaco la giovane donna chiese che le fosse portata in dono la testa di Giovanni Battista su un vassoio d’argento. Il mio ex dio non poteva certo tollerare un episodio del genere e per questo il suo popolo doveva odiare i compleanni.
Era stato Satana allora ad ispirare alla giovane donna il gesto criminale narrato dalla Bibbia ma quello stesso Satana avrebbe continuato a insinuarsi nei bicchieri di aranciata e nelle fette di torta, per sempre, e le persone del mondo inconsciamente lo avrebbero festeggiato. La piccola Sara seduta in disparte lo spiegava ai suoi compagni “Sbagliate” e li avvertiva che un giorno sarebbero stati puniti. Lei non si stancava di raccontare la storia imparata a memoria e non toccava nulla. Eppure, guardava e soffriva.
Ad una certa ora la maestra sospendeva la lezione, univa la cattedra ai primi banchi trasformandoli in una immensa tavola imbandita. Aveva un bel da fare a esortare al silenzio: l’aria di festa animava ormai tutta la classe. Tutti tranne la piccola Sara sistemavano i dolci, i pasticcini, le caramelle, le bibite e quando era pronto ci si buttavano a capofitto su quel bendiddio. La coca cola nel bicchiere di Paola faceva venir sete solo a guardarla e poi c’era quel grosso bignè al cioccolato, attenta ti esce la crema di sotto, le avrei voluto dire, mentre glielo mangiavo con gli occhi. Ma Sara era una brava bambina già piena di fede e di paura e l’acquolina che cresceva insieme all’invidia aveva imparato bene a tenerle a bada.
I cinque anni delle elementari sono stati un calvario, quanto avrei dovuto subire era già scritto fin dal primo giorno di scuola, quando la piccola Sara entrò in classe sentendosi subito diversa dagli altri. Piangeva e si disperava seduta al banchino. La mamma quella mattina l’aveva accompagnata e poi era scomparsa dietro alla vetrata. Lei ora si trovava lì da sola. Gli altri si conoscevano, molti di loro erano stati all’asilo insieme, ma Sara all’asilo non ci era potuta andare. Il mio ex dio a quei tempi sconsigliava i genitori di mandare i propri figli alla scuola materna perché così piccoli avrebbero potuto farsi coinvolgere in pratiche cattoliche.
E le pratiche cattoliche e del “mondo” erano tante: il Natale, l’Epifania, la Pasqua, il Carnevale, la festa della Mamma, quella del Papà. Per non parlare dei cartoni animati con gli infiniti album di figurine, giochi e linguaggi comuni che a me avrebbero dovuto rimanere estranei.
La ricorrenza più pericolosa di sicuro era comunque il Natale. Era a Natale che per Satana veniva celebrata la festa più grandiosa. Ed era a Natale che, più che mai, i “fedeli” servitori di Geova dovevano mostrare di amare il “vero” Dio. “Io non faccio il Natale perché è una festa inventata dalla Chiesa”, rispondeva sempre la piccola Sara ai suoi compagni di scuola. “Gesù non è nato il 25 dicembre perché i pastori non avrebbero mai potuto portare al pascolo le pecore in pieno inverno”. Come era fiera Sara delle sue risposte, ma l’emarginazione e gli scherni erano duri da accettare. La scuola in quel periodo era tutta avvolta come da una magia, le voci gioiose, i preparativi per la recita e i compagni che non facevano che chiedersi a chi sarebbe toccata la parte della Madonna e di San Giuseppe.
Già a novembre si cominciava a lavorare alla scenografia, ai costumi e si assegnavano le parti. La piccola Sara la vedo ancora là, nel suo angolo, da sola, disegnava è vero, ma non certo quello che avrebbe voluto. Per lei non c’erano parti da recitare se non quella della bambina seria e ubbidiente. Sulla grande parete di vetro, fra mille stelline, spiccavano quei bei disegni di abeti addobbati, di slitte piene di regali trainate da Babbo Natale e dalle sue renne.
Ma il nome di Sara non compariva mai tra quei colori. Le sente ancora nelle orecchie quelle canzoncine, “tu scendi dalle stelle…” ma Sara rimaneva muta per tutta l’ora di musica. Come sono belle, pensava, ma devo resistere perché è peccato. A casa, triste e con un groppo alla gola che non andava né su né giù, si addormentava e sognava. Nel sogno vedeva la piccola Sara lassù in cima, sulla scaletta del suo lettino a castello nella vecchia casa popolare combattere con l’omino del sonno. La vedeva mentre cercava di scorgere la grossa pancia di quel vecchietto buono vestito di rosso, chiamato Babbo Natale. In mano lui stringeva proprio la sua letterina mentre con l’aiuto degli elfi sistemava tutti i regali sotto l’abete che avevano addobbato lei, la mamma e il fratellino.
La mattina, appena sveglia, correva felice sotto il suo albero. E sgranava gli occhi, curiosa e impaziente di fronte a quei fantastici pacchetti colorati, con quei fiocconi e i nastri. Allora, in fondo, sono anch’io una brava bambina, si ripeteva le piccola Sara. Ma il sogno finiva sempre allo stesso punto: Sara non riusciva mai a scartare i regali. Al mattino la realtà si ripresentava come non avrebbe voluto, in una casa spoglia. Non c’era l’abete sotto la finestra, non c’erano le lucine dorate e neppure i regali. Geova aveva cancellato il mio indirizzo: da casa mia non è mai passato.
Quella che però non era sparita, come invece avevano fatto i miei sogni, era la scuola con i compagni. Loro sì che scrivevano le letterine e tutti eccitati si domandavano l’un l’altro cosa aspettassero quell’anno da Babbo Natale. A chi le dava gli auguri di buon Natale, la piccola Sara, ben istruita, rispondeva con un semplice: grazie. E, guai ad aggiungere: “altrettanto”.
Adesso guardo con tenerezza e po’ di nostalgia i miei nipotini aprire i regali sotto l’albero e fare un gran chiasso in mezzo a tutte le cartacce. Sono così felici. Non stanno proprio nella pelle e strappano via i nastri e i fiocchi. Le lucine creano la solita calda atmosfera e c’è sempre qualcuno che tira fuori la macchina fotografica per immortalare quegli attimi. Ma il mio album è vuoto.
La storia della piccola Sara continua nel libro Figli di un dio Tiranno Dieci storie di fuoriusciti da gruppi religiosi,a cura di Chiara Bini e Patrizia Santovecchi, cliccare qui per la recensione del libro.
I Puffi (da pagina 49)
«Avevo otto anni e andavo pazza per i "Puffi". I miei me li lasciavano guardare in televisione e io viaggiavo serena dietro alle strampalate avventure. Finché un giorno non successe qualcosa che alla piccola Sara tolse anche loro. Eravamo nella Sala del Regno, aspettando che iniziasse l'adunanza, quando Sara notò un gruppo di adulti che bisbigliavano fra loro con aria preoccupata. Si era appena appresa una no tizia sconcertante. Durante un'adunanza in una città del Nord Italia, a un bambino era stato consentito di portarsi dietro un puffo di peluche.
A un tratto, nel bel mezzo del sermone, il pupazzo aveva preso vita, si era alzato, aveva iniziato a camminare verso l'uscita e se n'era andato, scomparendo.
Il puffo era certamente indemoniato, orribile opera di Satana. Il divieto fu immediato. Da allora in poi ai nostri genitori fu se veramente vietato farci vedere i cartoni dei Puffi. Ricordo la piccola Sara, in silenzio, in preda al terrore. Quella sera in auto, dopo l'adunanza, non crollò addormentata sul sedile di dietro, come al solito. Era troppo agitata. Il suo Gargamella e il micio Birba erano potenze del male. E la sua sigla adorata "Noi puffi siam così...", che canticchiava sottovoce quando nessuno la sentiva, era censurata. Fu uno choc. Appena a casa, si precipitò nella sua cameretta, prese tutta la raccolta di puffi di gomma che teneva sullo scaffale e li gettò dalla finestra. Puffetta, Puffo vanitoso, Quattr'occhi e soprattutto lui, il fattucchiere più potente, il Grande Puffo che conosceva anche le più segrete e pericolose pratiche di magia: tutti giù, lontani da lei.
Per molto tempo non ci fu più pace neanche durante la trasmissione "Bim bum bam". I genitori, allertati e impauriti, controllavano che in quelle immagini non si nascondesse troppa magia. Sara dovette lottare per poter guardare "Creamy", e non parliamo di "Emy magica Emy". Quante volte ha maledetto chi aveva avuto la brillante idea di titolare il cartone proprio in quel modo, con quella parola che automaticamente glielo faceva diventare proibito».